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Nell’inferno del campo profughi di Idomeni si trova la vera umanità

Entrando nel campo di Idomeni si avverte nell’aria un forte odore di plastica bruciata. La legna non è sufficiente per accendere il fuoco che serve per cucinare un pasto caldo e per riscaldare la notte fredda che inesorabilmente colpisce i corpi indifesi dei profughi

Da due mesi, quasi 12 mila “dannati” sono accampati in questa piccola frazione di Kilkis che si trova a nord di Salonicco confinante con la Macedonia, con pochi residenti perlopiù agricoltori.

Le loro tende, quelle messe in piedi da Medici senza frontiere, dai volontari indipendenti e da Unhcr, sono il simbolo di una enorme emergenza umanitaria che sta coinvolgendo il paese più povero del vecchio continente, la Grecia

In questo luogo, l’istituzione europea, colpevolmente assente, ha interrotto il loro cammino e quindi la speranza per una vita migliore. Adesso sono lontani dai conflitti, dai terroristi del sedicente stato islamico, di Jabhat al Nusra, costola di Al Qaeda in Siria, ma le loro sofferenze non sono finite. La polizia macedone è stata durissima. Li ha respinti a colpi di gas lacrimogeni e pallottole di gomma mentre tentavano di rompere l’alta rete di recinzione che divide la Grecia dalla Macedonia.

Nei sacchi e negli zaini portono i pochi ricordi di una vita che non c’è più e che hanno lasciato definitivamente alle spalle.  La maggior parte vuole raggiungere la Germania e il nord Europa. Hanno superato fin qui prove difficili; lunghe marce per attraversare i confini, navigazione con i gommoni dalla costa turca alle isole greche. E poi a piedi e con mezzi di fortuna fino al confine macedone.

Hanno scelto, affidando il loro destino nelle mani di mercenari senza scrupoli, la rotta dei Balcani. Troppo rischiosa quella del mare mediterraneo che, purtroppo, ha conosciuto migliaia di morti. Ma anche questa via è stata seminata da lutti, disperazione e da centinaia di bambini risucchiati nell’abisso del mar Egeo.

Rischiano la vita per salvare la vita. Un paradosso infernale senza via d’uscita fintanto che i loro paesi sono infiammati dalla guerra.

È cosi che Mosa Khalil, suo fratello Moustafa con le rispettive mogli e sei figli piccoli sono arrivati a Idomeni. Una famiglia siriana di origine curda scappata dalla furia dell’ISIS. Dalla Siria, alla Turchia sono sbarcati in un’isola Greca con un barcone con quarantacinque persone a bordo. Vivevano ad Aleppo dove svolgevano l’attività di artigiani. Un giorno Mosa mi ha invitato a bere un caffè nella sua tenda in compagnia della sua famiglia. Mi fa vedere alcune foto dal suo telefonino. Immagini che raccontano il loro lavoro. Costruivano mobili e cucine. Avevano diciassette dipendenti, sei case di proprietà, adesso vivono in cinque piccole tende. Non vogliono più tornare ad Aleppo, hanno perso tutto. La loro destinazione è la Germania.

Nel campo si incontra la vera solidarietà. Quella dei volontari che da diversi continenti sono arrivati per dare un sostegno. E’ grazie al loro infaticabile lavoro che i profughi resistono nell’inferno di Idomeni. Le giornate sono scandite da molteplici attività, dall’assistenza sanitaria, le malattie respiratorie e quelle infettive sono le più presenti e con l’estate alle porte il campo sarà ingestibile; alla distribuzione del cibo e generi di prima necessità, all’assistenza legale.

Mi piace ricordare due volontari che per una settimana sono stati i miei compagni di viaggio. Andrea, di Reggio Calabria che vive a Istanbul per un Erasmus e Joana, una ragazza portoghese che per lungo tempo è stata nel Kurdistan.

Giovani straordinari e generosi, figli di un’altra Europa, quella solidale che non abbandona i propri simili, che guarda oltre i muri, oltre il filo spinato, con la mente aperta, che lavora per l’integrazione tra i popoli e che vuole costruire ponti di pace e solidarietà

È calata la notte quando lascio il campo per l’ultima volta. Mentre mi allontano sento il forte brusio di voci che arriva dalle tende. C’è vita. In una mano stringo un piccolo oggetto in legno intagliato a mano. È la copia di uno strumento musicale con i colori del Kurdistan. C’è scritto un nome, Mosa. L’ha fatto il mio amico curdo/siriano con le sue mani. Gli ho promesso che sarai tornato ad abbracciare ancora la sua famiglia e quella umanità sofferente che spera ancora che l’Europa apra le frontiere e consenta loro di costruire una nuova opportunità di vita.  

Non immaginavo che avrei potuto farlo in così breve tempo. Sono rientrato da pochi giorni ma sono già pronto per ripartire. L’opportunità mi è stata offerta da Ciro Palomba Nicola Regina Josephine Cacciaguerra Mark Lenders e dal mio amico Domenico Maurizio Loi che da giorni, nelle loro rispettive realtà, stanno preparando una missione con l’intento di portare aiuti umanitari. Ragazze e ragazzi di questa nostra terra che dimostra sempre di più di avere un’anima solidaristica proiettata a favore dell’umanità sofferente. Da subito mi sono attivato per mettere in piedi una organizzazione in grado di raccogliere nella nostra provincia degli aiuti. Serve di tutto: generi alimentari, soprattutto riso, pasta e prodotti in scatola, vestiario per bambini e per adulti. Medicine, considerata l’alta possibilità di contrarre malattie infettive e delle vie respiratorie. E ancora altri generi di prima necessità. La nostra partenza è prevista per giovedì 21 aprile. ADELANTE

Enzo Infantino

Volontario