La Camera Penale di Palmi esprime ferma disapprovazione nei confronti dell’aggressione a mezzo stampa diretta contro il giudice relatore del procedimento c.d. “Cosa Mia”
La Camera Penale di Palmi esprime ferma disapprovazione nei confronti dell’aggressione a mezzo stampa diretta contro il giudice relatore del procedimento c.d. “Cosa Mia”, che si sarebbe reso responsabile di colpevole ritardo nella stesura della motivazione della sentenza pronunciata il 27.07.2015 con conseguente scarcerazione di 3 dei 46 imputati giudicati.
Colpisce sia la smaccata disinformazione sui fatti sia l’avventatezza delle considerazioni che ne sono state tratte.
Colpisce anche il tentativo di stigmatizzare la condotta negligente – se non addirittura complice – dei giudici di appello esaltata attraverso il confronto con quella “eroica” dei Giudici di primo grado.
La realtà della condizione nella quale operano i giudici della Corte di Appello di Reggio Calabria è totalmente ignorata dai mezzi di informazione.
È bene che si sappia che da quando è stato abolito il principale strumento deflattivo del carico di lavoro delle Corti di Appello, il concordato ex art. 599 c.p.p., caduto sotto i colpi della Guerra Santa contro gli incentivi premiali agli appellanti che vi aderivano, il lavoro dei giudici d’appello, e in particolare quello riguardante i processi più complessi, si è almeno triplicato ad organico sostanzialmente immutato.
È bene che si sappia quanto al processo “Cosa Mia” che in tali condizioni:
- Dei sei anni trascorsi dall’inizio delle esecuzioni delle misure cautelari, ne sono decorsi quattro prima che gli atti pervenissero dinanzi ai giudici di secondo grado poiché il giudizio di primo grado si è sviluppato in decine e decine di udienze per oltre tre anni;
- Che il carico di lavoro dei giudici della Corte di Assise di Palmi, soprattutto in termini di numero di sentenze, non è nemmeno comparabile con quello di magistrati che compongono la Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria contemporaneamente impegnati nei collegi penali ordinari e nelle sezioni misure di prevenzione e minorenni;
- Che non può essere addebitata al giudice l’oggettiva difficoltà di gestione di processi monster come “Cosa Mia” riguardanti numero 46 imputati ed un elevatissimo numero, 55, di imputazioni tra le quali n. 7 di omicidi;
- Che tali obiettive condizioni di complessità avevano già prodotto la scarcerazione di una parte degli imputati in ragione della decorrenza dei termini massimi previsti per la fase del giudizio di primo grado che si era protratto dal momento del rinvio a giudizio fino alla sentenza per ben tre anni e quattordici giorni.
Ciò posto, si osserva che l’unico colpevole dilettantismo è quello dei professionisti dell’antimafia che hanno pesantemente contribuito a determinare la situazione prima descritta, promuovendo l’annullamento di quei dispositivi di legge che il Codice di rito dell’89 prevedeva quale condizione essenziale per il corretto funzionamento del processo e che abusando delle fattispecie associative hanno trasformato il processo penale in strumento di bonifica sociale contro moltitudini di cittadini gestibile solo al prezzo dell’annichilimento delle garanzie degli imputati (comprese quelle della durata ragionevole e del minor sacrificio possibile della libertà personale).