Rivoluzione culturale contro dissesto finanziario di Franco Rubino *

Spesso sentiamo parlare di “dissesto finanziario” degli enti locali, ed in particolare degli enti comunali. Sicuramente siamo tutti consapevoli che con la dichiarazione di dissesto, l’Istituzione precipita in una situazione molto grave con conseguenze estremamente negative sul piano finanziario, politico e sociale. Esemplificando, potremmo dire che il dissesto equivale ad un vero e proprio crack dell’ente locale, il quale, tuttavia, a differenza di un’impresa privata, non può fallire e cessare di esistere. Dell’ente pubblico, infatti, bisogna garantire la continuità amministrativa per non interrompere l’erogazione dei servizi pubblici ai cittadini. Senza entrare in eccessivi dettagli tecnici (come, ad esempio, problematiche relative alla spirale dell’indebitamento, al vorticoso aumento degli interessi passivi, alla grossa mole di debiti fuori bilancio) per capire cosa è il dissesto, e come si arriva ad esso, si può paragonare un comune ad una famiglia talmente piena di debiti, che non ha più il denaro per provvedere al soddisfacimento dei bisogni primari dei suoi componenti (mangiare, bere, vestirsi, avere un tetto sotto cui ripararsi). Un tale stato non si genera certo in un giorno o in un mese o in un anno, ma, ben si comprende, che ad una situazione così grave si arriva in un lungo lasso di tempo, e a prescindere da chi governa. In primis un siffatto stato viene a manifestarsi, quando per anni, chi ha gestito la cosa pubblica non lo ha fatto con la diligenza del buon padre di famiglia, e chi ne paga le conseguenze sono tutti i membri della famiglia, ovvero noi cittadini, compreso il capofamiglia, in quanto anch’esso cittadino.
STATO DI GRAVE DECADIMENTO
Il meccanismo attraverso cui si arriva al dissesto è abbastanza semplice. Come una famiglia entra in crisi quando spende per un lungo periodo più di quanto guadagna (indebitandosi e pagando debiti e interessi con altri debiti, su cui maturano ancora altri interessi), un comune va in dissesto, quando con le sue entrate non riesce più a far fronte alle spese ordinarie e al rimborso dei debiti contratti. Ad incidere, quindi, sulle crisi finanziarie di tanti enti è una sequenza poco virtuosa, che parte dalla riduzione dei finanziamenti statali e da una ridotta capacità di riscossione dei tributi per tradursi in una scarsa liquidità e in un costante utilizzo delle anticipazioni di tesoreria. In questi stessi enti sono spesso presenti alti costi fissi (difficilmente riducibili) e strumenti di controllo interni inadeguati, nonché inefficienze nell’azione amministrativa, incapacità di gestire il contenzioso, notevole formazione di debiti fuori bilancio e carenze organizzative molto gravi. Considerando tutto ciò, si comprende il perché, mentre in una prima accezione il termine “dissesto finanziario” viene definito sul vocabolario “situazione di grave passività patrimoniale”, in una seconda nozione, invece, al termine “dissesto” viene associato un significato più generale di “stato di grave decadimento”. Rielaborando i dati della Relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali della Corte dei Conti -anno 2020 – , si evidenzia che la Regione Calabria è la più colpita a livello nazionale da crisi finanziarie, le quali hanno costretto circa il 60% degli amministratori locali ad aderire ad una procedura di risanamento (dissesto o predissesto). Dall’analisi emerge anche l’esistenza di un legame tra la capacità di riscossione delle entrate e la crisi finanziaria dei comuni. Infatti, proprio in quelle regioni in cui le riscossioni non arrivano al 50%, si concentra circa l’80% delle procedure di risanamento straordinarie attivate. In Calabria la capacità di riscossione si attesta al 32,9% e la rigidità di bilancio (elevati costi fissi) al 43,66%.
CONSEGUENZE DEL DISSESTO
In ogni caso, comunque siano andate le cose, per l’amministrazione e per la cittadinanza con la dichiarazione di dissesto si prospettano tempi tutt’altro che “sereni”. Gli amministratori ritenuti responsabili del default vanno incontro a sanzioni di diverso tipo, anche se la procedura di accertamento delle responsabilità è tutt’altro che semplice e rapida, per cui nell’immediato il prezzo più alto è sempre pagato dalla cittadinanza. Nel dichiarare il dissesto, l’ente deve, infatti, deliberare l’innalzamento ai livelli massimi di legge delle tariffe relative a tutti i tributi: imposte, tasse, oneri di urbanizzazione, canoni e diritti diversi. In aggiunta gli enti sono tenuti a trasmettere all’Ufficio Risanamento Enti Dissestati presso il Ministero dell’Interno, tutti i provvedimenti adottati al fine di accelerare i tempi per le riscossioni e per l’eliminazione dell’evasione. L’Ente locale, inoltre, deve deliberare la rideterminazione della pianta organica, dichiarando quante sono le unità di personale dipendente in esubero rispetto al numero di unità consentito dalla legge. Infine, tutto ciò che concerne il “disavanzo pregresso” rispetto al momento del dissesto, viene estrapolato dal bilancio comunale e trasferito alla gestione straordinaria di una Commissione nominata dal Ministero degli Interni, mentre Sindaco, Giunta e Consiglio restano in carica a gestire il “bilancio risanato”.
TAMPONARE CON LA LOGICA DEL “SALVA”
Negli ultimi anni lo Stato ha cercato di evitare le dichiarazioni di dissesto da parte degli enti locali, tamponando, come troppo spesso accade, con interventi emergenziali, peraltro volti a favorire singoli enti. Ciò ha portato a quella che è conosciuta come la logica del “…SALVA…”: salva questo o quel comune, senza un criterio generale di fondo, e solo in un’ottica di vicinanza politica, come se esistessero cittadini di serie A e cittadini di serie B. Al solito il problema è stato affrontato in un’ottica parziale e non con una “logica di piano integrato”. La domanda sorge spontanea: allora, di cosa ci sarebbe bisogno? La riposta è altrettanto spontanea: della solita Rivoluzione Culturale! È l’unica arma con cui si può combattere lo “stato di grave decadimento”, e non solo quello! Si deve comprendere che il risanamento non può essere incentrato esclusivamente sull’aumento delle entrate e sulla contrazione della spesa con la speranza che, da un giorno all’altro, chi non ha mai pagato i tributi, cominci magicamente a pagare tutto! Anzi, c’è di più: un aumento delle aliquote potrebbe provocare una riduzione della propensione a pagare, se a quell’aumento non corrispondesse un aumento della qualità dei servizi comunali. Occorrerebbe, invece, provare a ridurre le aliquote, con l’obiettivo di far pagare di meno, e consentire a tutti di essere in grado di versare. La riduzione delle aliquote fiscali potrebbe essere più che compensata dal maggior numero di persone che potrebbero decidere di mettersi in regola, potendo sopportare più agevolmente il carico delle imposte: il gettito complessivo aumenterebbe e si sarebbe anche realizzata una maggiore “equità fiscale” fra i cittadini. Bisognerebbe, inoltre, diminuire le imposte che confluiscono in maniera indistinta nelle casse dell’ente, senza essere specificatamente legate all’erogazione di alcun servizio (esempio, addizionale IRPEF), per andare in misura maggiore verso la richiesta ai cittadini di un contributo direttamente allocato nel bilancio per l’erogazione di una specifica prestazione. Il cittadino percepirebbe di più l’utilità di quella spesa, poiché saprebbe che, ad esempio, quel denaro serve per pagare le pulizie della scuola che frequenta suo figlio, e non andrebbe a finanziare l’indennità di carica di questo o di quel consigliere: meno imposte generali, più contributi diretti legati alla erogazione di servizi, che ovviamente devono essere di qualità, poiché di certo non avrebbe senso pagare per poi sentirsi dire dai figli, quando tornano a casa, che la scuola è sporca! Avendo avuto una riduzione del carico fiscale sulle imposte indistinte, deve, però, entrare nella Cultura di tutti noi cittadini, che se vogliamo servizi di qualità, bisogna contribuire.
“NOI” FIGLI DI ULISSE
Certo, quelli che cercheranno di fare i furbi, ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Non dimentichiamo che noi calabresi siamo i “Figli di Ulisse”, l’astuto Ulisse, che accecò Polifemo e sconfisse la maga Circe! “Noi Ulisse” (anche chi scrive), ci sentiamo a volte gratificati se riusciamo a trovare il modo di “eludere” la norma, non quando la rispettiamo! Ma perché? Perché “noi” siamo più “furbi e intelligenti” degli altri! Fa parte del nostro bagaglio culturale (…la Rivoluzione Culturale…): il miglior commercialista è quello che riesce a far pagare ai suoi clienti meno tasse! Ma se il carico fiscale si abbassa ed è sopportabile, i “furbetti” potrebbero essere combattuti inserendo, per esempio, la tassa sui rifiuti (TARI) in “bolletta energia elettrica”, sulla falsa riga della procedura utilizzata per abbattere l’evasione del canone rai: quest’ultimo ce lo addebitano a rate “in bolletta” o forse ce ne siamo dimenticati?! Le teorie aziendali sull’organizzazione ci insegnano che nella realtà innalzare le “pene” (ad esempio, aumentare le sanzioni per chi non paga) serve a poco: bisogna trovare altre strade. Sono più efficaci sistemi “automatici” di prelievo, purchè sia un “giusto” prelievo! Così come, per combattere gli evasori, possono essere più efficaci sistemi “premiali”, come, ad esempio, i rimborsi per chi utilizza i pagamenti con carta di credito, sempre che si sappia farli funzionare in maniera adeguata, senza discriminare e far sopportare costi aggiuntivi e disagi ai cittadini.
LA POLITICA NON È UN MESTIERE, MA L’ARTE DI GOVERNARE
Dalla parte dell’ente gli amministratori si devono occupare di ciò che sanno fare: ognuno deve avere un ruolo in cui ha COMPETENZE. La politica non è un MESTIERE. Nella Roma Repubblicana le cariche erano elettive, gratuite, temporanee, collegiali. Il magister (Maestro) veniva eletto per UN ANNO. Il limite temporale era dettato dal fatto che, protraendosi la carica per più di 12 mesi, poteva indurre chi la ricopriva a crearsi una posizione di potere, e ciò era visto come una seria minaccia alla LIBERTA’ degli altri cittadini. Le cariche, inoltre, non offrivano un compenso in denaro, ma erano solo motivo di gratificazione personale e di prestigio per coloro che le rivestivano (fare il bene della collettività). Il magister, durante la sua carica, non poteva essere rimosso in nessun caso, anche se era processato per atti illeciti (continuità di governo), ma ciò non accadeva MAI. Anche perché, al termine del mandato si ritornava ad essere comuni cittadini, e si poteva essere chiamati in giudizio per rispondere di azioni che erano state commesse quando si era in carica. Di certo allora non si sarebbero potute vedere le stesse facce a ricoprire cariche politiche per un periodo che ai nostri tempi arriva in qualche caso ai 40 anni e oltre! Il limite delle volte in cui potersi candidare per ricoprire cariche politiche dovrebbe essere fissato con LEGGE della Repubblica, e non già inserito in codici etici di partiti o movimenti, puntualmente disattesi o ad arte modificati. Inoltre, chi si candida dovrebbe dimostrare di avere già un LAVORO con cui riesce a vivere, anche in assenza dell’incarico politico. Si potrebbe così sperare di vedere meno politici fare a gara nel cambiare partito, pur di essere rieletti, perché la mancata rielezione non significherebbe per loro “perdere il lavoro”, ma ritornare a quello che già avevano in precedenza. E se veramente chi si candida avesse in mente il “bene comune”, se eletto, dovrebbe percepire come compenso lo stesso ammontare di reddito che percepiva prima da comune cittadino: al limite tale reddito potrebbe essere aumentato di una indennità specifica, quantificata in base all’eventuale maggiore carico di lavoro. E proprio perché la Politica non è un mestiere, non ha senso parlare di CARRIERA POLITICA. Non ha pregio l’affermazione di chi dice: “io non sono un politico e la politica non mi interessa”. Nella vita di ogni giorno, piaccia o meno, TUTTO È POLITICA e tutto è disciplinato dalla Politica. Per argomentare queste affermazioni, basta solo evidenziare che è il PARLAMENTO che fa leggi, alla cui osservanza tutti siamo tenuti. E cosa c’è in Parlamento? La Politica, che tutti vorremmo con una “P” maiuscola e non con una “p” minuscola. Siamo arrivati al punto, tra corruzione, mafia, scandali vari, interessi personali, di pensare alla Politica come ad un qualcosa a contatto della quale ci si “sporca”, e da cui stare alla larga. È come se si fosse generato un virus (per restare ad un tema tristemente odierno), che ha infettato le nostre menti: stai lontano dalla Politica! Eppure bisogna guarire, perché Tu giovane che non trovi lavoro, Tu anziano che hai una misera pensione, Tu lavoratore che non arrivi a fine mese con il tuo stipendio, Tu impresa che sei in difficoltà, Tu cittadino che ti lamenti di pagare troppe tasse, Tu malato che hai bisogno di cure e non le trovi… Tu ben sai, e tutti ben sappiamo, che tutto dipende dalla Politica. E allora, perché ti disinteressi così tanto, che non vai neanche a votare? Per Te non è importante la tua vita e quella dei tuoi figli? Secondo un’antica definizione, la Politica è l’ARTE DI GOVERNARE. Capite? La Politica è un’Arte! È l’uomo che l’ha sporcata e resa invisa: svegliamoci, perché sta a tutti noi ripulirla e tornare farla splendere, e questo non si può fare restando inerti: ognuno deve fare la sua parte, sia pure piccola. Bisogna trovare il modo e il coraggio di portare avanti le proprie idee. Sono le idee che possono far paura e intimorire chi non vuole cambiamenti, perchè le persone possono sparire o essere fatte sparire, ma gli ideali restano sempre: restano e sopravvivono all’usura del Tempo… Quel TEMPO DIVORATORE DI COSE per dirla con Ovidio.
LA DILIGENZA DEL BUON PADRE DI FAMIGLIA E PROGETTI CREDIBILI
E l’Amministratore della res publica si deve muovere con la stessa diligenza del buon padre di famiglia, gestendo il DENARO PUBBLICO con efficienza ed efficacia. Solo spendere tale denaro, però, non basta. Una volta investito, bisogna valutare se i risultati hanno effettivamente portato dei vantaggi a tutta la collettività. Se così accadrà, non ci sarà bisogno di preoccuparsi di come accontentare gli “amici” per essere nuovamente votati: perseguendo l’interesse di TUTTI si farebbe anche quello degli Amici, che dei Tutti fanno parte. Ecco la Rivoluzione Culturale, che può consentire di uscire dal dissesto, e fare in modo che esso non si verifichi più. Tutti i cittadini, amministratori in primis, devono operare attraverso l’ESEMPIO: dare prima NOI, nei limiti del possibile e delle nostre competenze, un contributo alla realizzazione di quel “bene comune” che vorremmo perseguissero anche gli altri. La CULTURA deve portare ad una “nuova governance”, che ponga in essere interventi concreti per una riorganizzazione dei processi decisionali. Sarebbe essenziale ridurre l’età media dei dipendenti, garantire una formazione permanente, attuare una spending review non con tagli lineari, ma ragionata sulle singole voci di bilancio, e, soprattutto, puntare sulla DIGITALIZZAZIONE. Istruzione, formazione, digitalizzazione, sono settori dal cui potenziamento non si può prescindere per la realizzazione di quel “progetto integrato di sviluppo”, di cui abbiamo già detto anche in altri nostri contributi. L’occasione dei progetti legati al Recovery Fund è un’occasione irripetibile, non tanto perché si tratta di un ingente ammontare di risorse, quanto per l’occasione che si ha di presentare PROGETTI CREDIBILI, che effettivamente portino ad un Riscatto di questa nostra martoriata Terra di Calabria. Quando si sente dire che arriveranno oltre 200 miliardi di euro dall’Europa, io mi domando e a voi chiedo: se non abbiamo speso tutti i fondi europei che sono arrivati in passato, e quella parte che abbiamo speso non è stata investita in progetti che hanno portato risultati tangibili, non potrebbe essere un DISASTRO l’arrivo di tanto denaro con tutto quello che ci ruota intorno? Non si potrebbe essere tentati di spendere “allegramente”, pensando che tanto il denaro arriva come un fiume in piena, e anche se una parte viene sprecata non importa? Speriamo proprio che ciò non accada, e, soprattutto, che ci sia reale e leale collaborazione tra Stato ed Enti Locali, ognuno nel rispetto dei propri ruoli e dei propri compiti istituzionali, abbandonando la logica dello “scarica barile”: se una cosa è fatta bene, l’ho fatta “Io”, e me ne prendo tutto il merito; qualora, invece, i risultati non si dovessero vedere, cercate altrove di chi è la responsabilità: sicuramente mia non è! Cambiare mentalità, avere competenze, essere corretti, rispettare le regole dando l’esempio…. Ci vuole, appunto, la solita e quasi ossessionante “Rivoluzione Culturale!”.

* Docente Unical