“Ombre e ritagli di luce”. Nella sofferenza dell’Alzheimer, l’improvvisa carezza

Un dolore, un rimorso, una sofferenza che ci teniamo stretti. Ma anche lo stupore, i brividi, la bellezza. Sono le “Ombre e ritagli di luce” di Elena Montecucco ad arricchire la collana “I Diamanti della Poesia” dell’Aletti editore. Una raccolta di liriche scritta, in gran parte, durante la pandemia, con cui l’autrice, nata ad Arquata Scrivia (in provincia di Alessandria) ma che vive a Trento da ormai oltre trent’anni, vuole comunicare al lettore ricordi ed emozioni nei quali ci si possa riconoscere. Resta comunque forte il legame con il suo paese d’origine: i dolci ricordi, i colori della natura, gli amati luoghi, che la poetessa richiama nei suoi versi. Il papà, macchinista ferroviario. E quel fischio della locomotiva sempre nelle orecchie di Elena.
Dal dolore e dalla sofferenza può nascere la bellezza, ed ecco che dalla malattia della madre, colpita da Alzheimer – come racconta la stessa autrice, casalinga “irrequieta” dai mille interessi, tra cui il teatro che ha coltivato frequentando delle scuole a Trento – è partito tutto. E proprio all’Alzheimer Elena Montecucco dedica una poesia, che lei definisce un Haiku, componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo, costituito da tre versi.
«Mio padre, in cura da anni, per depressione, si è letteralmente lasciato scivolare via. Il loro era un amore troppo grande. Mia madre rapita dalla sua malattia, non si è accorta di nulla, per fortuna. L’Alzheimer me l’ha portata lontano, chissà in quale luogo si trova ora la sua memoria. Nella tragedia, la fortuna per mia madre di incontrare un altro uomo all’interno dell’Rsa dove è ricoverata. Un uomo diventato vedovo come lei, nello stesso giorno. Nelle loro menti confuse hanno ritrovato l’uno, l’altra. Ora condividono gli stessi spazi nella casa di riposo che dista pochi minuti da casa mia, convinti di essere coniugi». Una vita diventata inconsapevole ma condivisa. E, allora, il dolore pesa la metà. Ognuno può ritrovare in questo libro la propria ombra e riconoscerla. «La conosciamo così bene la sofferenza – afferma l’autrice -. E’ solo nostra. L’abbiamo così misurata, così soppesata. A volte, addirittura, il dolore è cresciuto con noi. Difficilmente ne parliamo o lo esterniamo. Le lacrime, i sensi di colpa, poi, all’improvviso, riportano tutto il dolore in superficie. A chi non è capitato. Dolori e sofferenze diverse, ma fatte della stessa sostanza, che avvertiamo con la stessa intensità dentro di noi». Ma in queste piaghe oscure, che sono comunque predominanti, si cela intrappolata una piccola, flebile, luce che taglia il buio. «È la speranza, che emerge prepotente e ci fa gioire delle piccole cose. Le mie ombre ogni tanto si allungano e si accorciano e mi vengono a trovare, per dirmi che non ho fatto abbastanza, che avrei dovuto fare di più. Ma, poi, i ritagli di luce tornano prepotenti a cercare aria, bellezza, speranza; basta un piccolo gesto, un profumo, uno stelo, a riscoprire che la sofferenza non è altro che l’ombra della felicità e che quest’ultima non potrebbe essere così nitida e salvatrice se non emergesse dal buio».
E, in questa antitesi dell’esistenza umana, la poesia assume un ruolo fondamentale. «Mentre tutti corrono spinti dalla vita sempre più frenetica, gli artisti hanno un dovere, un compito preciso, quello di accorgersi della bellezza delle piccole cose. Gli artisti sanno raccoglierle, evidenziarle e metterle sotto la luce, sotto gli occhi di tutti, che siano su tela, su carta o su uno spartito, loro ci regalano ritagli di luce». Riescono, così, ad entrare nelle menti e nei cuori di chi legge o ammira un’opera, creando un rapporto empatico. «L’obiettivo a cui aspiriamo – scrive, nella prefazione, Alessandro Quasimodo, autore, attore e regista teatrale, figlio del Premio Nobel Salvatore Quasimodo – ci invita ad analizzare il nostro mondo interiore, a riprendere la strada interrotta e a superare paure, angosce, in un’attesa, mai inutile perché contribuisce a prendere decisioni ponderate e a misurare le nostre forze. Nonostante il timore di fallire, è possibile ridare un senso al nostro viaggio, trarre forza e alimento dalla bellezza della natura e dalla memoria personale».
La raccolta di poesie è caratterizzata da uno stile essenziale, diretto e, a volte, breve come un Haiku. Fatto di impressioni come fotografie, immagini che riportano alla mente un profumo, un luogo, un affetto. Uno stile descrittivo, che difficilmente si affida alle rime, ma ama raccontare e raccontarsi. E questo racconto suscita emozioni condivise in cui ciascuno può rispecchiarsi. «In un mondo dove la comunicazione visiva è dilagante, raccontare per immagini per me è essenziale; risvegliare nella mente, nel nostro sentire interiore, una memoria, un ricordo: questo è il mio primo obiettivo. Ho scritto poesie per me – conclude Elena Montecucco – ma pensando agli altri, perché ognuno potesse ritrovarcisi e trovare la fune del proprio funambolo che sa guidare alla ricerca del nostro prezioso ritaglio di luce». E “Funambolo” è una delle poesie dedicata alla sua famiglia; al marito, «preziosa clessidra»; ai suoi figli, Francesco e Noemi, insieme alle liriche “Vivi”, “Il tuo sguardo”, “Nata a febbraio”, “Figlio”. Nei versi, emergono i valori dell’amore e dell’amicizia, profumi, ricordi d’infanzia, quelli in cui rivede sua madre, una sarta, a braccetto con la sorella nella poesia “Zia”. Così, questi frammenti rimarranno per sempre impressi, anche quando il dolore, la sofferenza, la malattia, sembrano portare la memoria altrove, in un altro luogo.
Federica Grisolia
(Vincenzo La Camera – Agenzia di Comunicazione)