La Calabria, una questione meridionale da collocare nell’orizzonte nazionale ed europeo
Interrogarsi sui motivi concernenti le condizioni nelle quali versa la Calabria – un esercizio, questo, peraltro non molto diffuso – significa chiedersi, prima di tutto, se ci sia l’effettiva volontà di restituire questa terra alla Repubblica Italiana. Le impressioni che con sconcertante sistematicità giungono dal quadro politico nazionale – con il correlato e creativo inventario delle appartenenze partitiche – lasciano intendere la mancanza, pressoché assoluta, di determinazione volta a spezzare e a risanare questo indegno isolamento. A onor del vero sembra essere una questione piuttosto antica. Ci troviamo infatti di fronte a una storica ed esiziale contraddizione, che ha trovato la sua sostanziale ragione di essere nell’avere impedito al Sud che l’unità politica dell’Italia potesse coincidere con l’unificazione socioeconomica, bloccando in questo modo non solo la prospettiva dell’industrializzazione ma, ancora prima, l’affermazione e la diffusione del profilo rappresentativo dello Stato moderno e dunque la possibilità di allargare e di rafforzare equamente il sistema di pianificazione della vita democratica. Un processo, questo, che durante il tempo ha assunto i chiari e intenzionali connotati di una colossale ed estraniante segregazione, che in modo particolare in Calabria ha incarcerato il diritto alla speranza e allo sviluppo, condizionando la struttura dell’essere sociale, di cui ne sono stati collassati e stralciati i percorsi costitutivi ed evolutivi, fino a determinare esperienze di svalorizzazione e di disumanizzazione. In definitiva il processo di burocratizzazione dello Stato unitario nasce nel segno della promozione dell’indifferenza verso il destino di questa terra, da sempre ritenuta come una pagina arcaica e disordinata, appunto per questo da condannare alla crisi e alla perdita dei valori istituzionali e, di conseguenza, alla strutturale disorganizzazione sociale. Appaiono drammaticamente prevedibili gli impattanti effetti sulla collettività, in modo particolare nei termini della percezione di una rassegnata inferiorizzazione antropologica, progressivamente interiorizzata come un inalterabile dato ontologico, dal quale ha prevalso la convinzione dell’impossibilità di potersi sottrarre. Bisogna ammettere che questa discriminatoria prassi abbia trovato una sponda – ampia e connivente – nel funzionamento dell’apparato amministrativo esercitato dai variegati governi della Regione. E’ anche in questo contesto gestionale che si assiste a un’insopportabile trasandatezza politica, la cui cifra si lascia riassumere in una larga disaffezione culturale e simbolica alla propria terra, di conseguenza in un carente slancio a fronte di ogni serio e audace sforzo di mediazione in suo favore. Oltre a non aver saputo – e voluto – impegnarsi per contrastare e rovesciare l’architettura della suesposta e maligna costruzione pregiudiziale, la corresponsabilità della politica calabrese é possibile individuarla nell’avere oltremodo accettato e rafforzato il tutto. A influire in questa direzione di senso é stato anche l’atteggiamento di distanziante sottovalutazione – nonché di beffarda marginalizzazione – a fronte del recupero di un pensiero dal respiro meridionalistico, non certamente inteso come un approccio folcloristicamente separatista, ma piuttosto come una visione audacemente aperta al grande e identitario orizzonte geopolitico della mediterraneità italiana e non di meno europea. Anche per tutto ciò la Calabria – come, del resto, le altre regioni meridionali – può indicare, nella mancanza di una strategia politica e culturale della sua istituzionale rappresentanza regionale, una delle fondanti cause che ha ingenerato la frustante privazione del processo di democratizzazione e delle pertinenti e potenziali ricadute sull’apparato economico e produttivo. Quanto detto non può essere certamente considerato cosa da poco, tenendo conto che si tratta di un insieme di resistenze che ha impedito a questa terra di iniziare a immaginarsi – innanzitutto – come un soggetto sociale autonomamente pensante. A prevalere é stato invece lo stile della disappartenenza, che ha acuito in modo ulteriore la disfunzione collaborativa tra lo stesso sistema amministrativo regionale e la più ampia e già strafottente visione unitaria dello Stato centrale. La propensione dell’ordinamento politico regionale, ingenerante l’evidenziata e pressoché assoluta mancanza di soluzioni normative e amministrative, è per di più da considerare trasversale a tutti gli indirizzi politici, tenendo conto che i cittadini calabresi abbiano spesso prodotto con il loro voto – nonostante tutto libero e desideroso di cambiamento molto più di quanto si possa pensare – un’alternanza tra centrodestra e centrosinistra, mentre i risultati registrati sono da considerare sostanzialmente inadeguati. Nella logica delle criticità di quest’ampio e complesso quadro situazionale s’inserisce il persistente divario Nord/Sud, con la crudele e incessante litania delle sue strutturali diseguaglianze territoriali. In Calabria esse continuano ad assumere lo sfregiato volto dell’aumento dei crimini ambientali e dell’assenza di infrastrutture e di servizi – basti pensare all’intrappolante indecenza delle vie di comunicazione, all’inammissibile stato organizzativo della sanità e alla tragicità del non lavoro – trovanti favorevoli spazi nell’abisso di una triste povertà economica e culturale. Del resto in questa regione si registrano, secondo taluni attendibili dati, oltre 800 mila persone che vivono in famiglie a rischio indigenza, vale a dire il 40% – circa – della popolazione. Si ha difficoltà, malgrado ciò, a rinvenire fondi per progettare strutturali e dunque lungimiranti politiche di contrasto e di risanamento, anche se nel frattempo non si esita a supportare la rituale pianificazione e realizzazione di un numero incalcolabile di sfarzosi eventi estivi, che spesso non si rivelano come motivo di speranza e di impegno, ma al contrario come un isolato e oppiaceo dispositivo di compensazione, sostenuto da utilizzi populistici di un sacro tendente ad alleviare il rapporto tra dominante e dominato. Eppure la povertà continua a mordere, da una parte abbrutendo indisturbatamente il valore della dignità umana, dall’altra attivando sempre di più i perversi meccanismi di una deliberata e strategica costituzione di un controllo, basata sulla potente regolamentazione dell’autonomia e dell’integrità dell’organizzazione del comportamento della maggior parte dei calabresi. Le loro coscienze si presentano come ipnotizzate e rese docili dalla visione di un ordine sociale ritenuto immutabile, poiché avvertito come amaramente predestinato, al punto tale che ogni tentativo di cambiamento sociale e culturale non è accolto come la condizione essenziale dello sviluppo, ma paradossalmente come una minacciosa e pericolosa deviazione capace di sovvertire l’equilibrazione di condotte previste e prescritte. Motivanti e rassicuranti difese, queste, che nei fatti deprimono e indeboliscono la collettività, grazie anche alla corresponsabilità della politica, che scoraggia la possibilità di trasformare l’insostenibilità delle più disagianti privazioni socioeconomiche in legittime e liberanti agitazioni sociali. Quanto detto restituisce al problema tutta la sua inevitabile complessità, riassumibile nel fatto che in Calabria il male sia considerato come una dimensione priva di qualsiasi riscatto, appunto per questo non affrontabile, ma solo da ingoiare e interiorizzare come un armonico e inviolabile fattore centrale di integrazione sociale, mediante il quale è possibile seguitare a sopravvivere, superando finanche tensioni, opposizioni e conflitti. In questo modello contestuale di dominio si contestualizza e si muove tra il locale e il globale – oltre che con la più ovvia ed evidente agevolezza – la realtà della ‘Ndrangheta, unitamente al correlato e rinvigorente sistema di poteri forti. Nei confronti di quest’aberrante fenomeno si reclama a ogni livello istituzionale – spesso con una certa arrogante disinvoltura – la reazione della società civile. Si tratta di una sollecitazione indubbiamente apprezzabile e appunto per questo condivisibile, i cui risultati sarebbero tuttavia molto più promettenti se anche lo Stato centrale si impegnasse in maggior misura nella costruzione di una relazione di conoscenza e specialmente di stima nei confronti dei calabresi onesti, possibilmente evitando di umiliarli, privandoli del fondante principio di autodeterminazione sociale, culturale ed economica. Appare, d’altra parte, un progetto piuttosto ambizioso combattere una criminalità organizzata che si nutre perfino degli spietati ed esponenziali dati riguardanti il livello di disoccupazione – come pure dell’indegna mancanza di opportunità formative e di spazi di aggregante socializzazione giovanile – per trasformarli in una concessione al sistema relazionale del suo capitale sociale. Alla luce di quanto detto sembra non intravedersi alcuna via d’uscita, se non nell’organizzazione delle forme della mobilitazione sociale, da incoraggiare dal basso e nella molteplice carica ideologico/culturale della sua indiscutibile matrice democratica. E’ da immaginare che tra l’altro si rendano necessarie esperienze capaci di mostrare maggiormente la dimensione sociotrasformatrice della fede – basti pensare all’impatto della pietà mariana – attraverso un impegno pedagogico e pastorale produttore di giustizia in quanto aperto a una liberatrice evangelizzazione. Sovvengono a questo proposito in mente le parole dell’insigne e indimenticato mariologo, Padre Stefano De Fiores, a proposito dei poveri e degli emarginati della società, ai quali la Vergine ha inteso mostrare la sua particolare predilezione: “Il cristiano che guarda a Maria non può essere complice delle ingiustizie del mondo, né ridursi a renderle omaggi e preghiere, ma deve parteggiare col Dio dei Poveri e impegnarsi in un amore politico verso di essi, onde contribuire alla liberazione del mondo da ogni ingiustizia”. Azioni di protesta, in ultima analisi, che nelle loro potenzialità rinnovatrici possano assumere una valenza critica ed etica tra chi condivide un insieme di convinzioni, dando magari luogo a espressioni d’indignazione per l’avvilente e inservibile disciplina degli interventi straordinari e in particolar modo per l’iniqua proposta di Legge sull’autonomia differenziata, non a caso fortemente voluta dalle opulente e sazie regioni del Nord, i cui successi partitici hanno trovato e colonizzato a loro favore – proprio in terra di Calabria – i tempi e gli spazi di un retrospettivo vuoto della memoria. In ogni caso la sua recente approvazione innescherà, come audacemente e lucidamente sostenuto dai Vescovi calabresi, “una dinamica di dis-integrazione”, da ritenere quale mortale colpo inferto da quella che l’economista Gianfranco Viesti definisce eloquentemente la “secessione dei ricchi”. Si è del tutto consapevoli che la su espressa mobilitazione – peraltro incitata a nome delle non poche e sane iniziative politiche e imprenditoriali – costituisca un impegno civile non facile, anche perché dovrebbe essere preceduta dalla necessità d’indagare, in modo terribilmente serio, sul ruolo degli intellettuali nella società calabrese contemporanea. Nel frattempo, tutto è compiuto.
Mimmo Petullà
Sociologo