Il sistema carcerario italiano ha fallito? Di Al. Tallarita
È impossibile non capire quanto il sistema carcerario italiano abbia fallito. Ovviamente come gran parte del modello internazionale. Ma ovviamente l’interesse per casa propria è superiore. Quanto successo nei giorni dell’emergenza Covid-19 ha fatto emergere quanto esiste e stabilmente venga ignorato. La situazione insostenibile logistica e organizzativa, trova grande base motivazionale, in un fallimento generalizzato del modello rieducativo. Laddove vi siano strutture sovraffollate, dove il numero degli agenti penitenziari sia insufficiente rispetto al numero dei detenuti. Oltre a condizioni strutturali fatiscenti e carenze igienico sanitarie conseguentemente deficitarie, al sovrannumero dei detenuti. La responsabilità è dello Stato, in quanto Stato-Padre deve poter essere all’altezza di educare o rieducare i propri figli, mantenendo e garantendo condizioni atte a farlo. Le carceri, in quanto istituti rieducativi, devono avere la prerogativa di qualsiasi governo. E non essere lasciati a se. Come un inferno parallelo, in cui i direttori si trovano a dover fare da padri e madri , in situazioni insostenibili. In cui a pagare sono i detenuti e la polizia penitenziaria. Il sovrannumero inoltre rivela vari gravi problemi: come il fatto che molti detenuti siano extracomunitari e che bisognerebbe prender in carico l’idea di estradarli, e farli rieducare nelle carceri dei loro paesi, oltre che sarebbe necessario il tenere in considerazione le differenze culturali e antropologiche tra i gruppi sociali, la provenienza, la religione. Evitando le situazioni di grave tensione che questi mescolamenti comportano. I meccanismi psicologici che si innescano nell’atto della detenzione sono da tenere in un’altissima considerazione. Per spiegare cosa succeda nelle carceri, e quanto siano poi determinanti alcuni atteggiamenti rispetto ad altri. Si tratta di realtà parallele, in cui esistono leggi, regole, codici, morali , sociali e d’onore. In cui il potere e la violenza vengono amplificati. In cui il tipo di crimine ha un peso specifico. L’esser parte di una famiglia o meno. In cui la razza può essere definitiva di uno status. In cui avvengono alleanze. Punizioni. In cui si assiste ad una formazione anche spesso criminale, che fuori probabilmente non si avrebbe, paradossalmente. In cui la sofferenza la fa da padrona. Il senso di estraniamento, l’alienazione, il far parte a una società parallela, con leggi e regole proprie. E dato questo quadro che è solo la punta dell’iceberg, risulta palese di quanto l’obbiettivo rieducativo e di protezione sociale sia invero utopistico e non realizzato. E non entriamo subito in merito a quanto nelle carceri riesca ad entrare, sostanze stupefacenti, cellulari, sono delle passate settimane delle condivisioni on line di video girati nelle celle. Non so se ci comprenda la gravità di questi che non sono episodi isolati, ma in molte realtà carcerarie sono la consuetudine, con avvallo di varie figure, in quanto ‘è il sistema’. Quanti sono i casi di suicidi nelle carceri e tanto dei detenuti quanto della polizia penitenziaria? Troppi per far finta di nulla. E girare la testa solo con le proteste scoppiate e la cattiva gestione di in Ministro probabilmente davvero molto lontano dal conoscere tali realtà. Che portano anche alla mente un altro delicato aspetto che è quello dell’identificazione tra agente e detenuto. La risposta sensata sarebbe dovuta essere quella di accusare gli agenti penitenziari di torture o violenze, senza invece comprendere che il problema ha radici più profonde. E senza comprendere che impoverire del loro potere la polizia abbia come risultato l’ondata di un’ulteriore violenza come poi si è rivelata nei giorni successivi con dita mozzate orecchie e aggressioni da parte di detenuti extracomunitari e non agli agenti in servizio? Nessun tipo di motivazione può assolutamente dare ragione a quanto accaduto. E nessuna giustificazione che non abbia come punto di riferimento gli studi sui rapporti di potere tra chi veste i panni della guardia e chi del detenuto può essere motivabile su altre basi.
Redazionale: Carceri e Potere
Parte 2
Dagli esperimenti di Milgram alle teorie del corpo e potere di Foucault
Di Al. Tallarita
È opportuno citare in questo redzionle su ‘Carceri e potere ‘ cos ha fatto Stanley Milgram con i suoi studi dimostrativi. Lo psicologo statunitense, nei suoi esperimenti eseguiti dal vivo, ha posto a confronto le azioni di potere indotto: ‘guardanti’ e subìto: ‘guardati’. Riguardo due soggetti A e B, perché chiunque può trovarsi tanto da una parte quanto dall’altra. E anche simbolicamente: la divisa, a stillare la differenza e il piano contrapposto. Il nome di questo psicologo è legato agli studi sul comportamento individuale, da parte di un sistema gerarchico e autoritario, impositore di obbedienza. Quando gli ordini entrano in conflitto con la coscienza e la dimensione morale. Negli anni sessanta il suo, fu un importante esperimento, all’ Interaction Laboratory dell’Università di Yale, per spiegare il livello di ordini che vengono impartiti da un’autorità riconosciuta. Milgram dimostra con le persone che hanno partecipato ai suoi esperimenti, che si istaurano nelle mente umana, precise reazioni in base al ruolo che si riveste. Si parte dai semplici rapporti di due soggetti: allievo e maestro, posti in un contesto sperimentale l’uno contro l’altro e in due stanze differenti. L’allievo viene legato ad una sedia, simile a una sedia elettrica e collegato a un falso elettrodo, dal quale provengono alcune scariche elettriche, che l’insegnante potrà decidere di infliggere ad ogni risposta ritenuta errata, del questionario posto. Lo scopo è quello di scoprire fino a che punto, un individuo possa essere influenzato dall’obbedienza. Con punizioni gradatamente più severe, verso la vittima. Ai segni di sofferenza da parte dell’allievo comincia per il maestro la fase di conflitto. La sofferenza dell’allievo dovrebbe spingere a cessare l’emissione delle scariche, ma l’autorità del maestro gli impone di continuare e l’allievo a sua volta potrebbe ribellarsi all’autorità ma non lo fa. Il potere e l’obbedienza, che è un suo mezzo, provoca reazioni inaspettate. I soggetti somministratori degli elettroshock, sentendosi in dovere di farlo possono diventare gli agenti di un processo distruttivo, solo attenendosi ai loro compiti, dice Milgram, nei suoi scritti. Pertanto il potere s’impone, attraverso la violenza, che nasce da un rapporto costrittivo. I comportamenti di chi compie un’azione di potere e di chi ne è soggetto, subiscono processi di reciproca influenza. Le reazioni di entrambe dipendono dalle circostanze in cui questa si rende manifesta, dal contesto sociale e dai meccanismi che innesca. L’azione di un soggetto che procede all’azione di potere, può essere la causa di una reazione, da parte di chi subisce il potere. La società si muove e agisce, come le strutture in cui il potere si manifesta, attraverso l’imposizione della disciplina. Attraverso una serie di esperienze, che si correlano tra un campo di sapere e un sistema normativo. Foucault considera la follia, la delinquenza, la malattia, la sessualità come singolarità storiche. Nelle carceri, la scuola, gli ospedali e le caserme, avviene una gestione politica del corpo. In questi luoghi l’opposizione tra istituzioni e corpi assoggettati, raggiunge il suo acme. Le manifestazioni vitali, organiche e psichiche di un individuo sembrano implodere in uno spazio esistenziale codificato dall’imposizione di un potere disciplinare. Dove l’individuo perde la sua libertà e diviene uno strumento, gestito dalle mani di un potere centrale. All’interno di una concezione che cerca il massimo rendimento dal suo potenziale, come oggetto, strumentalizzato dal concetto di lavoro. Foucault parla nella prefazione alla ‘ Storia della sessualità’, del rapporto del soggetto con se stesso, intendendo fare una storia della soggettività.