È scomparso Domenico Milea, grande musicista di Bova
Alla base della vita culturale del nostro tempo sta l’esigenza di ricordare una “patria “ e di mediare, attraverso la concretezza di questa esperienza, il proprio rapporto con il “mondo” […] per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria […]
Se questa tanto famosa quanto generale raccomandazione di Ernesto De Martino fosse stata indirizzata invece solamente a Domenico Micu Milea, che ci ha appena lasciato dopo quasi novantasette anni saggiamente vissuti, si sarebbe rivelata superflua come il classico sfondamento della porta aperta. Il villaggio abbarbicato nel cuore e nella mente di Micu si chiamava Cavaddu e faceva parte del territorio di Bova; un’ora di cammino a piedi lungo la strada interna di collegamento con Palizzi lo separava dal paese e la comunità che ospitava, insediata in uno sparpagliamento di piccoli nuclei, fino agli anni cinquanta del Novecento, quando ancora le conseguenze di quella disgrazia planetaria chiamata sviluppo o crescita economica non si erano abbattute sulla Calabria dispiegando tutta la loro forza distruttiva, fu capace di mantenere una sostanziale autosufficienza alimentare fondata sulla solidarietà tra gli abitanti, l’ampiezza dei loro saperi rurali e artigianali e la persistenza degli antichi usi civici sui terreni demaniali. Proprio su alcuni demani comunali d’alta quota, non a caso denominati tutt’oggi Campi anche se sono diventati boschi, le circa quaranta famiglie di Cavaddu coltivavano cereali consegnando ogni anno due parti su sette ( lu cincu dui) del raccolto all’amministrazione di Bova, che avrebbe in seguito indetto un’asta delle granaglie a beneficio dei pochi indigeni non campagnoli. Cavaddu vantava, negli anni che separarono la prima guerra mondiale dalla seconda, la maggiore concentrazione di suonatori di zampogna a la moderna dell’intera area grecofona, e la circostanza era un indizio inequivocabile dell’importanza socialmente conferita alla musica di tradizione orale, essenziale per divertirsi, provare piaceri estetici e tessere le trame dei rapporti interpersonali. La mamma di Micu Milea, una delle mammine ( levatrici) a quel tempo attive nella zona, non rinunciò a ballare persino la notte del 30 gennaio 1925 in cui lui, il più bravo e appassionato suonatore di tamburello della Bovesia nel secolo scorso, venne al mondo irrompendo per la prima volta in una serata di suono. Nella nascita c’era il destino, e infatti Domenico Milea, polistrumentista, depositario di notevoli capacità esecutive, di solide conoscenze organologiche e di una vasta memoria storica, esponente di una famiglia dalle spiccate qualità artistiche ( vanno menzionati almeno i fratelli zampognari Peppe e Bruno, nati rispettivamente nel 1929 e nel 1934 e già scomparsi da alcuni anni), nell’ immaginario collettivo locale è indissolubilmente legato alla musica tradizionale. Ma adesso che ne piangiamo la morte mi sembra proficuo rammentare alcuni ulteriori elementi portanti della sua cultura e della sua personalità, capaci di fornire strumenti utili a noi sopravvissuti, a noi precari occupanti di quel grande supermercato/superdiscarica che è diventato il pianeta Terra, ex paradiso trasformato in inferno con il contributo decisivo di diabolici maniaci dell’affarismo, consacrati al culto satanico dell’utile immediato e dell’economia predatoria. Micu, che da bambino già gioiosamente lavorava e suonava, allevava rapaci e altri animali selvatici, andava a caccia di granchi nella fiumara di Fundìa incuneata nel territorio di Palizzi, aveva fatto per tanti anni miele e formaggio, aveva conservato semi antichi, era stato coltivatore e raccoglitore di erbe spontanee per usi alimentari e terapeutici; apparteneva in altre parole a un’umanità dipendente dalle risorse rinnovabili e dai cicli stagionali, alla quale sarebbe risultata incomprensibile la dicotomia uomo/natura tipica di quella mentalità e di quelle pratiche tendenti a sottomettere ogni aspetto della vita ai criteri della valutazione economica: a differenza di chi in teoria dovrebbe condurci alla transizione ecologica ma di fatto continua a programmare interventi propiziatori di ennesimi inquinamenti, disgregazioni di ecosistemi e alterazioni di cicli geochimici, Domenico Milea non era fuori dal mondo ma con i piedi ben piantati per terra a rappresentare un universo agropastorale provvisto di senso del limite e della capacità di mantenere buone relazioni con gli esseri non umani. Oggi i più responsabili insistono sulla necessità e l’urgenza di recuperare le filiere corte della produzione alimentare eliminando fitofarmaci e fertilizzanti di sintesi chimica per rendere l’agricoltura meno energivora e inquinante; Micu, che mai, neanche dopo il trasferimento a Bova Marina dove visse con l’amata moglie Domenica e i tre figli, aveva dismesso il gusto di arrangiarsi da sé, l’autonomia individuale insita nella capacità di fare le cose, ci invitava da decenni a parare i colpi mortali della desertificazione delle campagne, della degradazione del cibo sottoposto a processi industriali, della perdita di qualità nelle esistenze di persone ammucchiate in agglomerati urbani amorfi e invivibili. Lu mundu si ndi iu a scatafasciu perchí li governi porcarusi combattiru li campagnoli, li forzaru perchí cu pocu sordi non si potti stari cchiù e ndeppimu mi campamu tutti pagandu tassi e bulletti (Il mondo è andato in rovina perché i luridi governanti si accanirono contro la popolazione delle campagne, ci condussero all’esodo forzato dal momento in cui, non potendo più vivere con pochi soldi, fummo costretti a pagare incrementi di tasse e bollette ), affermò per esempio nel 1994 manifestando ragguardevole consapevolezza storica: Micu aveva preso atto della guerra senza quartiere scatenata dalla società italiana, dopo il secondo conflitto mondiale, contro l’agricoltura di sussistenza delle aree interne, giustamente percepita come grave ostacolo sull’autostrada a scorrimento furioso del boom economico, e continuò a pensare fino ai suoi ultimi giorni che nessun territorio può definirsi in armonioso equilibrio se privo di sovranità alimentare. Vedeva con lucidità il fiato corto del contesto artificiale in cui ci siamo adattati a vivere e, portatore tenace di valori di un’altra epoca, non si rassegnava al cinismo nelle relazioni, al calcolo nei comportamenti, alle gerarchie e alle prepotenze ( si oppose sempre fieramente a qualsiasi pretesa di tipo ndranghetista) e all’isolamento esistenziale ormai imperante. Molto sarebbe ancora importante ricordare (come l’attaccamento alla lingua madre che gli consentì di familiarizzare con gruppi di greci nel breve periodo dell’emigrazione in Germania e di diventare un protagonista degli scambi culturali con la Grecia negli anni settanta e ottanta) ma non si può andare oltre e concludo immaginando un possibile epitaffio per Micu: fu uno di quegli uomini profondi, unici e irripetibili di cui si sta inesorabilmente perdendo lo stampo; sarà un punto di riferimento per chi cerca cornici culturali diverse da quelle di Draghi e Cingolani, due tipi poco raccomandabili che stanno alla transizione ecologica come i lupi stanno alle pecore.