Catanzaro, convegno AISLA
voglio innanzitutto ringraziare AISLA che ha organizzato questo evento e le autorità che lo hanno sponsorizzato, perché il tema della disabilità si coniuga con quello di solidarietà e di bene comune, di fronte ai quali una collettività non può tirarsi indietro.
La cura delle malattie è un debito sociale dello stato verso i cittadini, ma nel caso della sclerosi laterale amiotrofica e più in generale delle malattie neurodegenerative, è al malato che si deve guardare e non alla malattia, perché per queste malattie non c’è rimedio.
Il nemico in questi casi è l’indifferenza e l’inettitudine, cioè l’incapacità di riconoscere nel prossimo la priorità e di sapere e volere individuare le strategie che migliorino la qualità della vita. Da queste due emergenze nasce, dunque, l’urgenza di intervenire fornendo agli assistiti gli strumenti per affrontare e convivere con questa terribile malattia, tra cui personale specialistico e di supporto, opportunamente formato e organizzato, che sappia intervenire nei casi di primo soccorso e sappia prendersi cura della persona indovinandone i bisogni e anticipandoli, perché nella migliore delle ipotesi il malato, oltre a trovarsi nella condizione di immobilità, non può più comunicare, pur mantenendo le capacità cognitive più o meno intatte.
Il risultato di queste componenti fa la differenza tra la vita e la semplice sopravvivenza.
Io vorrei dare un piccolo contributo alla discussione mettendo a disposizione la mia esperienza di assistenza virtuosa. Quando si manifestarono i primi segni della sla avevo 52 anni ed ero nel pieno della vita. Una famiglia con tre figli che mi venerava, un lavoro che mi dava soddisfazione, facevo sport e insomma la vita mi sorrideva. Poi, un giorno, subentrarono i primi segni della malattia, camminavo zoppicando, cadevo continuamente, perdevo colpi ogni giorno ed ero costretto continuamente ad adattarmi. La mia famiglia mi aiutava a stare a galla, ma ero io che li tiravo a fondo.
E così aveva inizio il mio calvario.
Mia moglie mi aiutava a sollevarmi dal letto e a vestirmi, consolandomi e incoraggiandomi. Poi passai rapidamente al bastone, alle stampelle, al deambulatore e alla sedia a rotelle.
Quando realizzai che mia moglie non ce la faceva più assunsi una persona che mi aiutava nelle mie pulizie personali e mi accompagnava al lavoro. E così tiravo avanti con fatica, mentre la sla mi consumava inesorabilmente dal di dentro.
Quando rallentò drasticamente la mia capacità polmonare ed iniziai ad usare il ventilatore polmonare, smisi di lavorare e chiesi all’azienda sanitaria provinciale di attivarmi un piano di assistenza individuale, con operatori che mi aiutassero quotidianamente. Ormai ero immobile ed avevo bisogno di assistenza h 24. Fui visitato dallo pneumologo che subito mi prescrisse aspiratore e macchina della tosse per le secrezioni, ventilatore polmonare per aiutare la respirazione e mi attivò un’assistenza sanitaria domiciliare, composta da operatori sociosanitari, infermiere, fisioterapista motorio e respiratorio e logopedista. Da quando ho la tracheostomia e la peg mi visita periodicamente al cambio cannula.
Oggi che sono completamente immobile, con tale assistenza virtuosa riesco a fare una vita quasi normale, parlo, leggo, scrivo e lavoro con il puntatore oculare, gli operatori mi mobilizzano a letto e sulla sedia a rotelle, partecipo alla vita familiare dando il mio contributo, mi sposto continuamente con un furgone che mi ha fornito AISLA CALABRIA, che scambio a turno con altri pazienti con l’aiuto di volontari.
Insomma, l’alternativa a questa solidarietà sarebbe stato l’allettamento, recluso in una casa di cura.
Ancora oggi familiari di altri pazienti, che si sono fatti carico del familiare e sono sfiniti, chiamano mia moglie per avere informazioni per l’assistenza.
È a questi cittadini che si deve la solidarietà. Ovvio che il personale non può essere mandato allo sbaraglio, deve essere istruito ed addestrato. Io li ho addestrati i miei, con pazienza e collaborazione. Oggi non vivrei più senza. Mi farei portare in Svizzera per praticare l’eutanasia.
Per questi motivi serve che lo stato non ci abbandoni. Serve che siano destinate delle risorse per l’assistenza, serve che la disabilità non sia dimenticata. Lo dice sempre papa Francesco: non dimenticate gli ultimi. E pure la civiltà lo impone.