Reggio, rivisitazione del viaggio di Edward Lear in Calabria
Il 25 luglio del 1847 lo scrittore, poeta e disegnatore inglese Edward Lear (nato a Londra il 12 maggio 1812 e morto a Sanremo il 29 gennaio 1888)iniziava da Reggio Calabria, in compagnia dell’amico John Proby e del mulattiere Ciccio, il reggino che gli fu guida fedele, un viaggio all’interno della Provincia – dal 1817 Calabria Ulteriore I – che si protrasse fino al 5 settembre 1847.
A centosettanta anni da quel viaggio l’Associazione Culturale Anassilaos, presieduta da Stefano Iorfida, propone una rilettura del testo di Lear, che venne pubblicato in Inghilterra nel settembre del 1852 con il titolo di Journals of a landscape painter in Southern Calabria (Diario di un pittore di paesaggio nella Calabria Meridionale), con la sceneggiatura e regia di Daniela Scuncia e la lettura dei testi affidata a Giacomo Marcianò, Lilly Arcudi, Antonella Postorino, Nancy Calabrò, Carlo Menga, Nanni Barbaro, Mimma Licastro, Pietro Rossetti, Massimo Lo Presti, Silvana La Rocca e Mario Beretta che si terrà, martedì 18 luglio a Reggio Calabria, nel Chiostro di San Giorgio al corso.
Introdurrà la manifestazione Pina De Felice.
Conosciuto ed apprezzato in Calabria soprattutto per il resoconto di tale viaggio Edward Lear è considerato nel suo paese natale, l’Inghilterra, un grandissimo poeta per la sua capacità dimostrata nei “limericks”, brevi componimenti di cinque versi, accompagnati da disegni esplicativi, la cui prima edizione apparve nel 1846 con il titolo di “A book of nonsense”, un anno prima del suo viaggio in Calabria e per la grande abilità di disegnatore di animali e malinconici paesaggi, come peraltro dimostrato dai disegni, dapprima a matita e poi ripassati ad inchiostro, realizzati nel corso del suo viaggio dove, dopo Reggio toccò Motta San Giovanni, Bova, Bagaladi, Condofuri, Palizzi, Stati, Bruzzano, Bianco, Casignana, Sant’Agata del Bianco, Gerace, Siderno, Roccella, Stignano, Stilo, Gioiosa, Canolo, e poi ancora Castelnuovo, San Giorgio, Polistena, Radicena, Oppido, Gioia, Palmi, Bagnara, Scilla, Villa San Giovanni e il Santuario di Polsi, oggi tornato d’attualità grazie alla recente manifestazione promossa dalla Prefettura e dalla Diocesi di Locri, con la partecipazione del Ministro dell’Interno, che ha inteso restituire il Santuario alla sua funzione di centro della spiritualità calabrese “Senza dubbio – scrive Lear – quella di Santa Maria di Polsi è una delle più notevoli visioni che io abbia mai visto”…”Nessun altro posto, persino più remoto, fa intravedere un paesaggio di maggiore contrasto persino con quelli in cui giacciono spesso i solitari monasteri d’Italia, che dalla loro altezza e dal loro angolo dominano una distante pianura o il mare. Il viaggio a Reggio Calabria e nella sua Provincia condusse dunque Lear nel cuore di una provincia che si apprestava a vivere un momento rivoluzionario, la rivolta antiborbonica del settembre 1847 che sarebbe stata repressa nel sangue e di cui, nelle pagine dello scrittore, avvertiamo le avvisaglie nelle ansie, nei timori e nelle reticenze manifestate da taluni dei suoi ospiti. Non bisogna attendersi nell’opera notazioni di tipo politico o sociale, a parte qualche considerazione sulla fatica inutile dell’uomo (l’incontro con alcuni lavoratori vicino Bagaladi che si lamentano della loro condizione) o l’ironia garbata nel tratteggiare, a Condofuri, la sorella di Don Giuseppe Tropeano che, in assenza del fratello, sbarra la strada di casa ai viaggiatori ripetendo continuamente “sono femmina” . Egli vuole essere soltanto un “pittore di paesaggi” e lascia di Reggio e Provincia, come si diceva, una serie di disegni pubblicati insieme al volume. Anche se si trova suo malgrado coinvolto nella rivolta () manifesta una certa preoccupazione per la sorte di Reggio e dei suoi abitanti coinvolti nella rivolta (le pagine del diario che si riferiscono alla giornata del 4 settembre parlano della repressione a Reggio) non esprime giudizi sulla rivolta, sui rivoltosi e sul governo. Nel Diario troviamo invece la vita della nostre comunità, le abitudini, soprattutto delle classi dirigenti e nobili da cui Lear viene ospitato (gente cortese e gentile, ospitale, attenta, talvolta erudita ma anche ciarliera, con bambini troppo vivaci per il rigore inglese), la curiosità che solleva nei contadini, e non solo in essi, la presenza di questo inglese; il sospetto che sia mandato dal suo governo a spiare. Qui e là compare lo spirito ironico del poeta dei “non sense”, sempre bonario e mai supponente o dispregiativo verso la gente, anche la più umile che incontra. Il rapporto con l’onesto Ciccio, che viene assunto per accompagnarlo e che parla un dialetto reggino incomprensibile, è a questo proposito emblematico. Il “Dogo dighi, doghi, daghi, da” con cui si esprimeva Ciccio, una sorta di scioglilingua, doveva essere apprezzato da chi, come Lear, in più d’una occasione aveva fatto uso di simili “suoni” per i suoi versi “non sense”.
Caterina Sorbara