Reggio, alle Muse ritorna la letteratura meridionale

L’associazione culturale “Le Muse” salvaguarda e promozione il territorio calabrese, le sue eccellenze artistiche, letterarie, sociali, intellettuali, quelle dimenticate che, tramite l’ausilio di ammnistrazioni volte al rilancio della cultura fanno riemergere personaggi ormai dimenticati.
Al Laboratorio delle Arti e delle Lettere, “Tra Reggio e Staiti: la letteratura di Domenico Monoriti” è stata utile a presentare la roccolta di 40 racconti dichiara il presidente Livoti, editi da Città del Sole che fanno emergere un vissuto: quello dal sapore della provincia fatta di luoghi e personaggi e quella che raccoglie e riunisce la storia della città di Reggio collegata al zona di Sbarre Centrali. Le Muse da sempre fanno ricerca in ogni ambito e questo serve per smuovere una politica culturale che spesso dimentica. L’Amministrazione Comunale di Staiti con il Sindaco avv. Giovanna Pellicanò ha portato il suo saluto mettendo in evidenza come Staiti ha un suo attivo e fattivo rilancio non solo per le sue bellezze paesaggistiche ma, anche all’interno dell’alveo della memoria, quella dei cunti, delle storie che trovano in Monoriti un abile comunicatore del tempo. Il Presidente del Consiglio Comunale, preside Leone Campanella, supportato dalla Giunta e dai Consiglieri ha invece ribadito come Staiti oggi rilancia la sua storica Biblioteca Comunale “Tommaso Campanella” e, lo fa con autori che hanno descritto il sapore della provincia arricchendo così il panorama letterario. Domenico Monoriti è testimone della perdita del padre dice Campanella, ancora bambino, padre sindaco e persona d’un tempo a cui è stata un anno fa dedicata la piazza del Comune, una intitolazione alla memoria, al primo Sindaco dalla Liberazione, Saverio Monoriti (16/12/1896 – 23/02/1944), travolto ed ucciso dal treno a Brancaleone, mentre si recava in Prefettura a Reggio Calabria. Di letteratura ed arte ha così parlato la prof.ssa Rosa Marrapodi, scrittrice e critico letterario. Due momenti sono quelli trattati nel testo ha chiosato: uno dedicato al rione Sbarre di Reggio Calabria con la sua lunga strada tra le fiumare Calopinace e Sant’Anna, dove l’autore ha trascorso l’infanzia ed una sezione indirizzata a Staiti, “montagna incantata” e ritrovo del cuore, dell’anima e del pensiero del noto e forse poco conosciuto nella scrittura degli autori calabresi Domenico Monoriti. Un uomo ha ribadito la Marrapodi, classico per cultura e romantico di cuore, spettatore di tanta parte di storia territoriale e nazionale, è spinto a narrare ed a narrarsi, certo della fugacità e dell’inganno del tempo che “passa, passa e se qualcuno non lo racconta, tutte le sue piccole tracce scompaiono e si perdono per sempre”. Ed egli, testimone dei non facili tempi in cui è vissuto, “prima che il velo del silenzio e la polvere del tempo ne coprano la memoria”, affida tante belle vecchie storie alle pagine di questo libro, “La terra nel sole distesa sul mare”.
Un titolo non scelto a caso, molto significativo per chi come Domenico Monoriti ama l’umanità e la natura, “questa bella d’erbe famiglia e d’animali” nella sua forma più primigenia, la terra, il sole, il mare, elementi topici “del gran mar dell’essere”, l’universo nella sua immensità, in cui si muovono gli uomini, piccoli e grandi, tutti, per quanto arbitri, ignari del proprio destino. Nelle pagine di questa interessante opera tanta parte di credito rivestono il fato, il senso dell’arcano, il pregiudizio veritiero, l’ignoranza vittima della superstizione, fondata sul “lugubre lamento della civetta”, la “piula”, che “canta, nella notte, sette volte… ed anticipa, senza mai sbagliare, il triste suono della campana che accompagna il dolore, il pianto e l’eterno silenzio”. Tremava di paura la gente di Staiti e non solo, infatti, quando sentiva l’uccello del malo augurio cantare sette volte, come sette erano le gobbe della Rocca di Gallo, importante riferimento storico-geografico di Staiti, nel cui contesto, secondo l’avvincente narrativa di Domenico Monoriti, ogni dissidio era “vexata quaestio”, una questione tormentata, dall’esito quasi sempre tragico. L’autore di questo bel libro di memorie, quindi, dopo un familiare “ ‘nda” di saluto, ci prende per mano per farci calare nella storia della sua vita, vissuta tra il rione Sbarre di Reggio Calabria e la realtà di Staiti, la montagna incantata dalle voci magiche, lui, con la madre nata a Staiti ed il padre a Palizzi. Nel libro, dunque, egli tratta appassionatamente questi due momenti della sua vita, città e paese, Reggio e Staiti, entrambi elementi fondamentali della sua formazione umana, storica e culturale. “Quondam”, un tempo, una volta, è così, con questo breve avverbio di tempo in latino, che incomincia la prima parte, quella dedicata all’infanzia ed all’adolescenza, trascorse in Via Sbarre, la lunga strada tra le fiumare Calopinace e Sant’Anna, esposta all’aria, intorno agli anni trenta, “Come una lucertola al sole”, titolo del primo racconto che sintetizza i momenti di crescita e di attesa del futuro Preside, don Mimi Monoriti, come affabilmente lo chiamavano gli “staitani”. Grama la vita, all’epoca, a Sbarre, dove si viveva nelle baracche, costruite dopo il terremoto del 1908, osservando rigorosamente un’economia di sopravvivenza grazie alla presenza di orti e di giardini ed all’industriosità dei fumerari sbarroti, che possedevano stalle con animali da “fumère”, da letame, da cui il soprannome, comune a tutti come un marchio di fabbrica. Nel rione, in fase d’incipiente sviluppo, tutti appartenevano alla stessa vita della lunga strada delle Sbarre, dove pochi e semplici avvenimenti segnavano il fluire del tempo, la festa della Madonna della Consolazione, il Natale, la Pasqua. Lungo quella strada non mancava il commercio povero “fai da te”; venditori ambulanti come il “paracqua”, l’ombrellaio, ed il “‘mmolaforbici”, l’arrotino, erano di casa, infatti, alle Sbarre, personaggi vivi di un presepio che andava oltre il tempo del Natale. La fontana con le donne, seguite dai bambini, rappresentava il notiziario parlato della lunga strada: Micuccio l’orbo, il giornalaio, aveva subito un’aggressione fascista, pagando caro l’allusivo strillo “latri – buna”; il sarto pettegolo con cui il giornalaio si confidava era morto improvvisamente, strangolato nella notte da ignoti. La vita a Sbarre negli anni trenta scorreva così, tra bassi e bassissimi, tra piccole gioie e grandi dolori, ai quali si manifestava una partecipazione corale di verghiana memoria. regole del vivere civile. Alla sua morte egli lascia loro una bella “eredità di affetti” e loro, suoi affezionati eredi del mestiere, gli dimostrano la loro gratitudine il giorno dei suoi funerali ,dedicandogli una commovente nenia divinamente suonata davanti al cimitero di Condera. Il mondo cambia, però, e gli uomini si evolvono adeguandosi ai tempi nuovi, incuranti di chi cade, sotto i colpi delle novità, e non riesce a rialzarsi, come ‘u Tisu, il cui emporio entrò in crisi quando “la ghiacciaia entrò nel museo del tempo per dare spazio al frigorifero”. Commossi gli eredi Monoriti ed in particolare l’avvocato Antonello Monoriti che ha parlato in nome della famiglia insieme allo storico amico avv. Emilio Lucisano. Il nipote si è detto portavoce della famiglia, sempre unita e volta alla ricerca del bene comune, utile alla collettività; lo zio ha detto Antonello, era persona sensibile, d’altri tempi e si spera che possa anche lui avere un ricordo nella storia della letteratura calabrese. Il Coro delle Muse insieme al Coro Giovanile Laudamus hanno cantato a cappella sotto la guida professionale dei direttori Enza e Marina Cuzzola facendo riecheggiare una “Calabrisella” d’altri tempi e di altre storie, quella che forse non torneranno più.