Mutilazioni genitali femminili, la Calabria sottovaluta il dramma

Il 6 febbraio ricorre la giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili. Sembra assurdo ma ancora oggi nel XXI secolo, riti che provengono da culture arcaiche e che causano danni permanenti nel fisico e nella mente soprattutto di giovanissime donne sono riusciti non solo a sopravvivere ma a diffondersi in Europa e in Italia a seguito dei flussi migratori che stanno interessando i nostri Paesi. Le stime parlano di oltre 200 milioni tra bambine, ragazze e donne che nel mondo hanno subito forme di mutilazione, circa 500 mila casi in Europa. E in Italia si registrano tra i 60.000 e gli 81.000 casi. Numeri a cui si sommano quelli di circa 3 milioni di ragazze ogni anno rischiano di subirle.
È difficile scoprire queste pratiche ancestrali, soprattutto per il silenzio dei nuclei familiari dove avvengono tali violenze. A cui si aggiunge un certo disinteresse che spesso caratterizza il rapporto tra appartenenti a culture diverse.
Ed è qui che sorge la necessità di intervenire. Non è certo presunzione domandarsi quale dovrebbe essere il ruolo degli enti locali rispetto a questo dramma con le loro strutture di assistenza sociale e le articolazioni culturali. I fenomeni connessi al nomadismo dei popoli , legati a culture ataviche, vanno affrontati con grande cautela: altrimenti queste pratiche devastanti rimangono confinati nell’ambito familiare precludendo alle vittime qualsiasi forma di aiuto, soprattutto psicologico.
In Italia la legge 9 gennaio 2006, n.7 (Disposizione concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile), vieta la mutilazione genitale femminile e prevede forme di prevenzione, di assistenza e di riabilitazione per le vittime. Il silenzio, però, impedisce che episodi di siffatta violenza diventino un problema dell’intera comunità in cui vivono bambine, adolescenti e donne a rischio mutilazione. Sono ancora troppo poche le denunce di queste pratiche e ancor di meno le condanne: lo scorso fine settimana, in Inghilterra, dove un’apposita legge esiste da oltre trent’anni, per la prima volta una donna è stata condannata per aver mutilato la figlioletta di tre anni. Ed allora il problema va affrontato dal punto di vista socio-culturale oltre che sanitario, con azioni preventive e di sostegno alle vittime e alle loro famiglie. Anche questo rientra nelle azioni d’integrazione. Sul piano normativo, sempre la legge 7 del 2006, affida al dipartimento della Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri il coordinamento della attività di prevenzione, assistenza e contrasto del fenomeno dei ministeri competenti (Salute, Istruzione, Esteri e Interno). Inoltre il ministero della Salute viene impegnato a emanare “linee guida per le figure professionali sanitarie e alte professionalità in contatto con le comunità provenienti da paesi in cui vengono praticate le mutilazioni genitali femminili allo scopo di implementare attività di prevenzione, servizi di assistenza, riabilitazione per donne e bambini che hanno subito tale mutilazione”.
A livello territoriale la competenza legislativa spetta alle Regioni. Ed è qui che si riscontrano le principali problematicità con carenze strutturali e organizzative soprattutto sul piano di prevenzione e di assistenza. La Calabria, in questo senso, è tra le ultime visto che non si è ancora dotata neanche di specifici centri di assistenza sanitaria sul territorio. Per colmare questo vuoto, lo scorso anno, il coordinamento regionale donne della Cisl ha presentato al Commissario della Sanità un pacchetto di proposte che però è rimasto lettera morta. Ma noi non ci arrendiamo. Riproporremmo con maggiore vigore il progetto al nuovo commissario. Continueremo a batterci affinché questo dramma esca dall’ombra e restituisca dignità e rispetto per tutte le donne.

Nausica Sbarra
Responsabile coordinamento donne Cisl Calabria