Il Sud Italia può continuare a vivere di concessioni?
Occupazione, fiscalità, servizio sanitario, infrastrutture e trasporti, sono tra le materie che puntualmente si ritrovano al centro delle argomentazioni delle varie componenti socio-politiche, specialmente quando si avvicina il periodo elettorale.
Se poi ai settori sopraindicati si accosta l’area meridionale del nostro Paese, diviene estremamente facile ricavare il materiale necessario per l’organizzazione di dibattiti, assemblee, conferenze, trasmissioni ed ogni sorta di evento che, tuttavia, non hanno fin oggi scalfito minimamente il quadro programmatico di intere legislature.
Al fine di trattare dei dati più empirici, possiamo prendere come riferimento la città di Reggio Calabria, luogo bellissimo del Meridione che racchiude enormi potenzialità, eppure registra puntualmente record negativi sul piano occupazionale e nei servizi pubblici a fronte invece della pressione tributaria più elevata su scala nazionale.
Non a caso in questi giorni abbiamo assistito all’ennesima protesta dei sindacati per la garanzia dei livelli occupazionali nel settore trasporti, così come imprenditori, gestori e dipendenti di strutture private che offrono servizi alla collettività in ambito sanitario e più in generale nel terzo settore, lamentano la mancanza del dovuto impegno da parte degli organi di indirizzo amministrativo e politico.
Di fronte un simile scenario un qualsiasi altro popolo avrebbe da tempo perso la pazienza, nondimeno chiunque si sia spinto oltre i confini meridionali e nazionali sicuramente ha potuto constatare la differenza nell’offerta pubblica e nella capacità civica dei cittadini, le quali rappresentano due facce della stessa medaglia.
Purtroppo, al contrario, nel nostro territorio la partecipazione alla vita socio-politica di una considerevole parte della cittadinanza si limita ad un’imprecazione o ad un commento stizzito sui social network (sull’effetto dei quali ci vorrebbe un’analisi approfondita), i più “intraprendenti” credono sia sufficiente recarsi alle urne e porre un segno sulla scheda elettorale per risolvere la decennale questione meridionale.
Va precisato, infatti, che il voto dovrebbe essere il momento finale di un percorso partecipativo che il cittadino dovrebbe svolgere nella propria area urbana di residenza, in mancanza del quale diviene diretta conseguenza il fatto che i nostri rappresentanti locali, in ambito sociale, politico ed economico, più che tutori degli interessi e delle esigenze della collettività, si siano tramutati in veri e propri galoppini dei vari vertici delle segreterie nazionali di partito.
Sia ben chiaro che questa riflessione non vuol portare ad un dualismo tra diverse aree geografiche del Paese, né si intende offendere gratuitamente i propri concittadini, tuttavia è opportuno formulare un’analisi circostanziata per risalire alla fonte dei nostri problemi e per constatare se vi sia la reale volontà di parificare le prestazioni delle Regioni meridionali con gli standard economici delle Regioni europee più sviluppate.
Difatti dovrebbe sorgere spontanea la riflessione che il servizio pubblico e l’economia nelle aree geografiche periferiche non possano svilupparsi appellandosi alle segreterie nazionali dei vari partiti, le cui sedi si trovano, non a caso, tutte locate da Roma in su e le cui attività non devono e non possono mescolarsi con l’operato delle istituzioni.
In un quadro nazionale dove il debito pubblico condiziona sempre più la spesa in bilancio, la quale viene ripartita, non in proporzione alle reali esigenze ed alle priorità di intervento, ma, viceversa, sulla base di gerarchie di partito o in relazione al peso politico ed economico che esprimono i singoli territori, vi sarà sempre una sperequazione dei finanziamenti che continuerà ad alimentare una lotta fratricida tra le differenti aree geografiche del Paese.
Ecco perché è necessario che venga data concreta attuazione a quei principi fondamentali inseriti dai nostri padri costituenti nelle Carte Costituzionali del dopoguerra, ma in Italia fin oggi non applicati o distorti nella loro originaria funzione, primo fra tutti il dispositivo dell’articolo 5.
Senza il decentramento del potere decisionale sulla spesa pubblica ed il superamento della partitocrazia che ha pregiudicato la terzietà dell’azione istituzionale, il Sud Italia continuerà ad esser usato solo come fonte di compravendita di voti, dove la contropartita consiste nel somministrare quanto sia sufficiente per la sopravvivenza.
In uno Stato ove ci si ostina a voler accentrare le prerogative di governo viene persino resa inutile la presenza di un Parlamento poiché tanto i componenti quanto il resto degli elettori, invece di trovare nella norma l’espressione delle proprie esigenze, diventano semplici numeri funzionali alle strategie dei partiti, alla logica dei seggi e delle soglie di sbarramento, atte proprio ad impedire che i cittadini estranei all’attuale sistema oligarchico possano assumere il controllo sulla gestione delle risorse pubbliche.
Se quanto riportato corrisponde alla realtà, vi è da chiedersi perché i cittadini che risiedono al Sud Italia non costituiscono e sostengono un epicentro politico sul territorio al pari di quanto si è fatto nelle aree centrali e settentrionali del Paese?
Quale sorta di soggezione psichica impedisce ad una terra dalle enormi potenzialità di acquisire la rilevanza politica ed economica che merita o che spetta di diritto ad ogni comunità locale dell’Unione Europea?
Forse è una questione di mero opportunismo o il timore di perdere un effimero privilegio individuale a fronte di un incerto benessere collettivo?
A tal riguardo sembra opportuno citare alcuni versi della Carta Europea dell’Autonomia Locale, sottoscritta a Strasburgo il 15 ottobre 1985 da tutti gli stati membri del Consiglio d’Europa e ratificata in Italia con Legge n. 439 del 1989:
“Le collettività locali costituiscono uno dei principali fondamenti di ogni regime democratico; Il diritto dei cittadini a partecipare alla gestione degli affari pubblici fa parte dei principi democratici comuni a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa; E’ a livello locale (ossia il Comune) che il predetto diritto può essere esercitato il più direttamente possibile”;
Inoltre al comma 1 dell’articolo 9 della Carta si dispone che “Le collettività locali hanno diritto, nell’ambito della politica economica nazionale, a risorse proprie sufficienti, di cui possano disporre liberamente nell’esercizio delle loro competenze”.
Se è vero com’é vero che i principi fondamentali contenuti nelle norme europee e costituzionali sopraindicate devono rappresentare il riferimento nell’operato di ogni rappresentante istituzionale, prima ancora che di un qualsiasi altro cittadino, allora diviene obbligatorio iniziare a riflettere che la crisi economica italiana ed in particolare la decennale questione meridionale sono frutto della mancata evoluzione del sistema politico-istituzionale italiano che, a differenza degli Stati più efficienti, si ostina ancora a mantenere una partitocrazia centralizzata a discapito della democrazia e delle comunità locali.
In parole semplici, più la gestione delle risorse pubbliche si concentra in capo ad una stretta cerchia di persone che opera in luoghi distanti dai cittadini, maggiore sarà il rischio di corruzione ed il sacrificio della trasparenza e della partecipazione democratica.
Non vi è alcuna utopia pertanto a pretendere che gli Enti locali debbano concorrere al potere legislativo e che ad essi venga destinata una camera del Parlamento in luogo del vetusto ed oggi sterile Senato italiano.
Al contempo occorre che tale riforma parta dal basso, attraverso un referendum costituzionale promosso dai Comuni del Sud Italia e perché no, magari proprio da una città come Reggio Calabria, dove sicuramente vi è una gran parte di cittadini che è stufa di vedere la propria terra in fondo alle classifiche nazionali, nonostante le straordinarie potenzialità e le prerogative di Città Metropolitana, riconosciute con Legge n 56 del 2014, ma purtroppo rimaste fin oggi sopite.
Il Direttivo del M.I.T.I. Unione del Sud